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Atala, modello Califfone

"Da quando in qua non parti più, brutta scatoletta di Brill [1] a due ruote, che ti lascio marc-HIC-ire in garage... Guarda che ti tradisco colla bici, mica ci impiego tanto sai?"

"Toh... c'è di nuovo Califfone... ahahahaha... arriva dalla piola... ahahahaha..."

"Venite... nascondiamoci là, facciamo come l'altra volta che gli abbiamo fatto credere che la moto gli rispondeva"

"daiii... ti ricordi quando l'ha raccontato in chiesa?"

"ahahahhahaha"

"andiamo!"

"Ecco il solito stuol d'anitre loquaci in secca riva, ma lasciatelo stare, va... non vedete che è ciucco di nuovo?" aggiungo io con una punta di cattivo sarcasmo, piccato da quel comportamento così irrispettoso nei confronti di colui che non dovrei reputare un povero mentecatto, ma che (per la stessa ragione) mi muove a compassione a tal punto da suscitare in me un gran sentimento protettivo.

Ma io sono piccolo e quindi mi viene risposto con un paio di gesti, uno è formato posando un dito sulle labbra in segno di silenzio e l'altro formato da tutta una mano ondulante, per dirmi sinteticamente "vattene, altrimenti...".

Eh già... corre l'estate del 1984 e io sono un ragazzino che frequenta la scuola media che, ogni tanto, si prende un buon libro e se lo va a leggere in un campo, correndo lontano da casa con tanta volontà di restar solo, per veder riapparire quel mondo fantastico che prende forma ogni volta che l'immersione nella lettura è completa.

Questa storia appartiene al luogo dove sono nato, Corio Canavese, un piccolo paesucolo di montagna fuori mano, in Piemonte, di solito molto tranquillo, ma che è piacevolmente conturbato, in questi giorni, dalla festa del santo patrono: Sant'Anna.

Ogni luglio la si festeggia con mangiate e bevute luculliane (soprattutto bevute) da parte di tutto il paese, parroco e sindaco inclusi! Come nel Don Camillo di Guareschi, i due, pur guardandosi in cagnesco, per una volta tanto stemperano i reciproci rancori nel vino buono e si abbandonano ad ampi sorrisi. Seduto in fondo all'osteria della signora Margherita c'era, fino a poco fa, appunto, Califfone. Era solo, ma con un piano per la serata: Bere, con la B maiuscola. Ora é uscito e, non riuscendo piú a guidare il motorino, fa finta di non riuscire a metterlo in moto, parlandogli con disprezzo. Questa pratica, visto il numero di bevute, é diventata cosí ricorrente da trasformarsi in discorso, in dialogo. Probabilmente la quantità di spirito bevuta dona dello spirito anche al mezzo, animandolo e facendolo diventare persona vera e propria. Si tratta, infatti, di un vecchio ubriacone (in paese lo conoscono e lo aiutano un po' tutti) che si arrabatta per vino e pagnotta quotidiana.

Il suo unico compagno fedele, oltre al vino, è infatti il suo ciclomotore: un vecchio Califfone nero tutto scassato, anni 70, dotato di avviamento a insulto e di suono tipico di ferraglia. L'unico componente meccanico che non fa rumore è il clacson.

I fari, durante le salite, emettono nel rosso spento tremolante (avete presente le lampade votive che spesso si vedono in chiesa?) e nella banda dell'ultravioletto (UVB, credo), durante le ripide discese.

Questi fari sono una delle prove più convincenti del red e blue shift, per un osservatore posto nel punto più basso e che osservi Califfone salire o scendere! Mica ci volevano Doppler, Einstein e compagnia [2]...

A proposito di nomi... Califfone è un nome d'arte, metonimia data dalla sua vicinanza perenne al motorino, usata da tutto il paese e persino scritta sul suo citofono di casa. Il suo vero nome, purtroppo, non lo ricordo più. Se quella lamiera arrugginita e mobile avesse avuto un'anima avrebbe potuto racchiudergli il cuore. Lo sanno bene i giovinastri del paese, dimostrando una sensibilità rara e preziosa, che lo prendono francamente e inequivocabilmente per il culo ad ogni occasione.

Casa sua, o meglio uno scantinato tutto umido, buono solo per far crescere muffa, gli è stata data in comodato d'uso gratuito dal proprietario dello stabile in cui risiede, in cambio della manutenzione del giardino condominiale. Un piccolo fazzoletto di terra di questo appezzamento (accuratamente nascosto da una siepe piantata per l'occasione, ma si tratta di un segreto di Pulcinella) è stato ridestinato dal medesimo ad uso orticolo. Il proprietario, da sempre, chiude un occhio.
Patate, carote, un piccolo albero di mele buone e qualche cavolo in inverno, tutto qui stipato, come se quella piccola riserva fosse in realtà una dispensa segreta e infinita, con la sua siepe a fare le veci dell'inviolabile muro del giardino dei Finzi-Contini, danno vita ad un ambiente quasi intoccabile e religioso, dove il rispetto altrui si concretizza attraverso la cognizione della povertà.

Califfone è così: pezzente ma signore, ubriacone ma attento a tenersi casa e giardino per garantirsi la sopravvivenza. Confida spesso in piccoli lavori, in cui può adoperare le sue qualità di tuttofare, per garantirsi ora una pagnotta di pane o qualche bicchiere di vino oppure, ancora, qualche litro di magra miscela per l'altra faccia di se stesso: l'Atala Califfone.

Quello degli anni 80 è un mondo semplice dove tutto questo è possibile, che vede il sindaco andare in panificio con la biciletta a comperarsi la biova, vede molta gente vestirsi senza vanità e vede nel paese un piccolo mondo antico che sa guardare al futuro con tante speranze e con tanti sogni ambiziosi, ma senza alcuna volontà di strafare sconfinando nella irrealtà.

"parti, maledizione, parti..." "perchè non parti?" "sei solo un catorcio vecchio e usato, -HIC- ecco chi sei. Adesso ti spingo fino a casa, ma mi devi un favore... -HIC-"

"sei tu che non sei capace di farmi partire"

"chi ha parlato?" "adesso alzi anche la vo-HIC-ce con me?" "non parlarmi in questo modo, sai!"

"sono stufo di portarti in giro"

"e io che ti compro la miscela" "mangi a sbafo, sai" "noi non siamo più amici"

"Heilà, Califfone, cosa fai?", chiede il vigile urbano sapendo già la risposta.

"Portavo a casa questo insolente, deve aver bevuto e non vuole p-HIC-artire, poi è insolente, alza la voce con me, quando gli parlo"

"Capisco. Vieni, ti accompagno a casa. Devi smetterla di bere così, sai?"

"Ma mi risponde male, e io che lo curo! Poi, perchè vuoi veni-HIC-re a casa mia? Mica ci stiamo, siamo in tre e poi lui ha un carattere difficile, poi non voglio farmi vedere in giro con il civich[3]. Ho una reputazione. Lui ha bevuto, come vedi sto ben-HIC-issimo. Poi lui parla, l'ho sentito tante volte."

"Vieni, vieni..."

I due si allontanano, mentre, alcuni, nascosti, stanno letteralmente morendo di risate. Lo ammetto, sogghigno, ma scuoto anche la testa, mentre torno a casa tra il divertito e il mosso a compassione.

Tanti, troppi, sono gli scherzi che gli vengono fatti, come l'aggiunta di acqua nella miscela, le spine delle rose usate per bloccare il tasto del citofono, in modo che suoni di continuo, la trasformazione del vino in aceto e molti, molti altri. Califfone non se la prende, mai, non perdona ma non considera. Osservando il suo modo di fare ho capito che per vivere bene, molto spesso, bisogna avere la memoria corta.

Spesso lo si trova nei prati, a primavera, da sobrio, a raccoglier grosse margherite, in mazzi.
Un giorno, vedendolo entrare al cimitero, terminato il raccolto, non posso non dare sfogo alla mia curiosità e lo seguo precipitosamente.
Lo vedo andare verso le tombe dei poveri e dei soli, togliere delle vecchie margherite secche e metterne meticolosamente di nuove. Incuriosito, lo chiamo e gli chiedo spiegazioni. Mi risponde di osservare le fotografie sulle lapidi, quelle che ci sono, almeno.
Mi dice: "Vedi Pietro, questi morti sono contenti, nelle foto sorridono, perchè porto loro un fiore del campo qui vicino."
Mi rendo conto che, senza di lui, quelle tombe sarebbero abbandonate, sporche e disadorne e quanta ricchezza possa esserci in colui che pensavo essere, pentendomene, un povero mentecatto!

Molti anni dopo, tornando in paese dopo una infinita assenza, vago tra i suoi viottoli e i suoi cunicoli, ascoltando l'infinità di ricordi che tornano a raccontarmi di quel mondo perduto, alcuni belli, piacevoli, altri decisamente da dimenticare.
Visitando il cimitero, con sopresa ingiustificata, trovo anche la sua tomba.
Non lo riconosco leggendone il nome, che non ricordo nemmeno più, ma dal suo soprannome e dalla sua foto.
Abbraccia il suo Califfone, tutto sorridente. Qualcuno ha piantato delle margherite, proprio di fronte a lui.


[1] "Brill" era il nome commerciale dato ad un lucido per scarpe, venduto in una scatola di latta con una aletta laterale per aprirlo.

[2] http://en.wikipedia.org/wiki/Redshift

[3] I poliziotti locali vengono chiamati così, in Piemonte.

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Commenti e note

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di ,

he he he, grazie!

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di ,

Mi viene in mente il Conte Beretta, un signore che girava nel mio quartiere, spesso ubriaco. Ricordi degli anni '80 e'90. Bel racconto di vita vissuta.

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di ,

Grazie!

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di ,

Ah, l'ho vista ora in home page

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di ,

Bel racconto, Pietro. Ma la foto dov'è?

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di ,

Grazie, Zeno. Davvero troppo buono.

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di ,

Molto bello, Pietro, il tenero ritratto, che emerge dai tuoi ricordi, di un semplice che, con "il suo modo di fare", trasmette l'insegnamento "che per vivere bene, molto spesso, bisogna avere la memoria corta." Un semplice che ha saputo comunicare anche ad altri la bellezza di raccogliere e donare margherite. Il tuo è un delizioso regalo di Natale per questa nostra piccola comunità.

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di ,

Grazie!
La foto, peró, non é mia ma di admin

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di ,

Grande Pietro! Bellissima fotografia.

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